sábado, 10 de janeiro de 2015

Il Sultano e San Francesco (la risposta di Tiziano Terzani a Oriana Fallaci, e a molti in queste ore)

di Tiziano Terzani
532948_10152902333161760_1228191903519466569_nOriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri gia’ grande e tu proponesti di scambiarci delle “Lettere da due mondi diversi”: io dalla Cina dell’immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall’America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma e’ in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l’impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo.
Ti scrivo anche – e pubblicamente per questo – per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. La’ morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana – la ragione; il meglio del cuore – la compassione.
Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. “Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia”, scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all’indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui uso’ di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell’umanita’, un’opera che sembra essere ancora di un’inquietante attualita’.
Pensare quel che pensi e scriverlo e’ un tuo diritto. Il problema e’ pero’ che, grazie alla tua notorieta’, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta.
Il nostro di ora e’ un momento di straordinaria importanza. L’orrore indicibile e’ appena cominciato, ma e’ ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. E un momento anche di enorme responsabilita’ perche’ certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti piu’ bassi, ad aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecita’ delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l’uccidere. “Conquistare le passioni mi pare di gran lunga piu’ difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me”, scriveva nel 1925 quella bell’anima di Gandhi. Ed aggiungeva: “Finche’ l’uomo non si mettera’ di sua volonta’ all’ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sara’ per lui alcuna salvezza”.
E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non e’ nella tua rabbia accalorata, ne’ nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela piu’ accettabile, “Liberta’ duratura”.
O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo e’ mondo non c’e’ stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sara’ nemmeno questa.
Quel che ci sta succedendo e’ nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. E una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’aver davanti prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilita’ di nulla, tanto meno all’inevitabilita’ della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta.
Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre piu’ tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor piu’ determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor piu’ terribile violenza – ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguira’ necessariamente una loro ancora piu’ orribile e poi un’altra nostra e cosi’ via.
Perche’ non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari “intelligente”, di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui.
Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologiche – Stati Uniti in testa – d’impegnarsi solennemente con tutta l’umanita’ a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilita’. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale – di per se’ un’arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l’orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta. In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L’arte di non essere governati: l’etica politica da Socrate a Mozart). L’autore e’ Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all’Universita’ di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff e’ che la politica, nella sua espressione piu’ nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici piu’ profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all’uomo la necessita’ di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civilta’.
Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino – un marchio che e’ anche una protezione -, lo condanna all’esilio dove quello fonda la prima citta’. La vendetta non e’ degli uomini, spetta a Dio.
Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell’uomo occidentale perche’ col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro e’ servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilita’ della violenza che non raggiunge mai il suo fine.
Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e cosi’, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore.
A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle “Tigri Tamil”, votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di “Hamas” che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po’ di pieta’ sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull’isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l’Imperatore. I kamikaze mi interessano perche’ vorrei capire che cosa li rende cosi’ disposti a quell’innaturale atto che e’ il suicidio e che cosa potrebbe fermarli.
Quelli di noi a cui i figli – fortunatamente – sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l’ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio.
Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perche’ io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolvera’ uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.
Niente nella storia umana e’ semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c’e’ raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, e’ il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell’evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L’attacco alle Torri Gemelle e’ uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non e’ l’atto di “una guerra di religione” degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non e’ neppure “un attacco alla liberta’ ed alla democrazia occidentale”, come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell’Universita’ di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse da’ di questa storia una interpretazione completamente diversa. “Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno attaccato la politica estera americana”, scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri – l’ultimo, Blowback, contraccolpo, uscito l’anno scorso (in Italia edito da Garzanti, ndr) ha del profetico – si tratterebbe appunto di un ennesimo “contraccolpo” al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi.
Il “contraccolpo” dell’attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall’installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l’Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana “a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico”.
Cosi’ si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati.
Esatta o meno che sia l’analisi di Chalmers Johnson, e’ evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’e’, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi “amici”, qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa e’ stata la trappola.
L’occasione per uscirne e’ ora.
Perche’ non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perche’ non studiamo davvero, come avremmo potuto gia’ fare da una ventina d’anni, tutte le possibili fonti alternative di energia?
Ci eviteremmo cosi’ d’essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre piu’ disastrosi “contraccolpi” che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta.
Magari salviamo cosi’ anche l’Alaska che proprio un paio di mesi fa e’ stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche – tutti lo sanno – sono fra i petrolieri.
A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese e’ legato al fatto d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’India e da li’ nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli “orribili” talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si e’ impegnata col Turkmenistan a costruire quell’oleodotto attraverso l’Afghanistan.
E dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessita’ di proteggere la liberta’ e la democrazia, l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. E per questo che nell’America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’industria petrolifera con quelli dell’industria bellica – combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington – finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all’interno del paese, in ragione dell’emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie liberta’ che rendono l’America cosi’ particolare.
Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l’aggettivo “codardi”, usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, cosi’ come la censura di certi programmi e l’allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni. L’aver diviso il mondo in maniera – mi pare – “talebana”, fra “quelli che stanno con noi e quelli contro di noi”, crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’America ha gia’ sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.
Il tuo attacco, Oriana – anche a colpi di sputo – alle “cicale” ed agli intellettuali “del dubbio” va in quello stesso senso. Dubitare e’ una funzione essenziale del pensiero; il dubbio e’ il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste e’ come volere togliere l’aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d’aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande.
In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo “ufficiale” della politica e dell’establishment mediatico, c’e’ stata una disperante corsa alla ortodossia. E come se l’America ci mettesse gia’ paura. Capita cosi’ di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan e’ un importante simbolo di quell’America che per due volte ci ha salvato. Ma non c’era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam?
Per i politici – me ne rendo conto – e’ un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor piu’ l’angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civilta’ combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.
Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente.
Ma questo ci impone anche grandi responsabilita’ come quella, non facile, di andare dietro alla verita’ e di dedicarci soprattutto “a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia”, come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America.
Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che e’ complicato. Ma non si puo’ esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunita’ di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi.
Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa e’ l’Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l’arabo, oltre ai tanti che gia’ studiano l’inglese e magari il giapponese?
Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente e’, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia.
Mi frulla in testa una frase di Toynbee: “Le opere di artisti e letterati hanno vita piu’ lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno piu’ in la’ degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di piu’ di tutti gli altri messi assieme”.
Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per “gli altri”, per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provo’ una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufrago’ e lui si salvo’ a malapena. Ci provo’ una seconda volta, ma si ammalo’ prima di arrivare e torno’ indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l’assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati (“vide il male ed il peccato”), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraverso’ le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c’era ancora la Cnn – era il 1219 – perche’ sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell’incontro. Certo fu particolarissimo perche’, dopo una chiacchierata che probabilmente ando’ avanti nella notte, al mattino il Sultano lascio’ che San Francesco tornasse, incolume, all’accampamento dei crociati.
Mi diverte pensare che l’uno disse all’altro le sue ragioni, che San Francesco parlo’ di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d’accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressivita’ e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia.
Ma oggi? Non fermarla puo’ voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all’orrore dell’olocausto atomico pose una bella domanda: “La sindrome da fine del mondo, l’alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l’uomo piu’ umano?”. A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere “No”.
Ma non possiamo rinunciare alla speranza.
“Mi dica, che cosa spinge l’uomo alla guerra?”, chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. “E possibile dirigere l’evoluzione psichica dell’uomo in modo che egli diventi piu’ capace di resistere alla psicosi dell’odio e della distruzione?” Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c’era da sperare: l’influsso di due fattori – un atteggiamento piu’ civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire.
Giusto in tempo la morte risparmio’ a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale.
Non li risparmio’ invece ad Einstein, che divenne pero’ sempre piu’ convinto della necessita’ del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all’umanita’ un ultimo appello per la sua sopravvivenza:
“Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto”.
Per difendersi, Oriana, non c’e’ bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c’e’ bisogno d’ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni.
M’e’ sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha gia’ i poteri della preveggenza, “vede” che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell’acqua ad affogare per salvare gli altri.
Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della liberta’ di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocita’ commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden?
“Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate”, scrive in questi giorni dall’India agli americani, ovviamente a mo’ di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell’esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse si’.
L’immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del “nemico” da abbattere e’ il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’Afghanistan, ordina l’attacco alle Torri Gemelle; e’ l’ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; e’ il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo pero’ accettare che per altri il “terrorista” possa essere l’uomo d’affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui e’ piu’ conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci piu’ i campi per far crescere il riso, muoiono di fame?
Questo non e’ relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, puo’ esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sara’ difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare.
I governi occidentali oggi sono uniti nell’essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti.
Molto meno convinti pero’ sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio e’ diffuso cosi’ come e’ diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra.
“Dateci qualcosa di piu’ carino del capitalismo”, diceva il cartello di un dimostrante in Germania.
“Un mondo giusto non e’ mai NATO”, c’era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Gia’. Un mondo “piu’ giusto” e’ forse quel che noi tutti, ora piu’ che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalita’ ed ispirato ad un po’ piu’ di moralita’.
La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perche’ ora tornano comodi, e’ solo l’ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi.
Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalita’ internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese piu’ reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato ne’ il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, ne’ il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L’interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l’utilita’ del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sara’ presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i “lavoretti sporchi” di liquidare qua e la’ nel mondo le persone che la Cia stessa mettera’ sulla sua lista nera.
Eppure un giorno la politica dovra’ ricongiungersi con l’etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze.
A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa citta’ mi fa male e mi intristisce. Tutto e’ cambiato, tutto e’ involgarito. Ma la colpa non e’ dell’Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una citta’ bottegaia, prostituita al turismo! E successo dappertutto. Firenze era bella quando era piu’ piccola e piu’ povera. Ora e’ un obbrobrio, ma non perche’ i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perche’ i filippini si riuniscono il giovedi’ in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione.
E cosi’ perche’ anche Firenze s’e’ “globalizzata”, perche’ non ha resistito all’assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato.
Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso e’ scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch’io non mi ci ritrovo piu’.
Per questo sto, anch’io ritirato, in una sorta di baita nell’Himalaya indiana dinanzi alle piu’ divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, li’ maestose ed immobili, simbolo della piu’ grande stabilita’, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo.
La natura e’ una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto piu’ grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono piu’. Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passera’ anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace.
Perche’ se quella non e’ dentro di noi non sara’ mai da nessuna parte.

Para se intender o terrorismo contra o Charlie Hebdo de Paris

09/01/2015
        Uma coisa é se indignar, com toda razão, contra o ato terrorisa que dizimou os melhores chargistas franceses. Trata-se de ato abominável e criminoso, impossível de ser apoiado por quem quer que seja.
Outra coisa é procurar analiticamente entender porque tais eventos terroristas acontecem. Eles não caem do céu azul. Atrás deles há um céiu escuro, feito de histórias trágicas, matanças massivas, humilhações e discriminações, quando não, de verdadeiras guerras preventivas que sacrificaram vidas de milhares e milhares de pessoas.
Nisso os USA e em geral o Ocidente são os primeiros. Na França vivem cerca de cinco milhões de muçulmanos, a maioria nas periferias em condições precárias. São altamente discriminados a ponto de surgir uma verdadeira islamofobia.
Logo após o atentado aos escritórios do Charlie Hebdo, uma mesquita foi atacada com tiros, um restaurante muçulmano foi incendiado e uma casa de oração islâmica foi atingida também por tiros.
Que signfica isso? O mesmo espírito que provocou a tragédia contra os chargistas, está igualmente presente nesses franceses que cometeram atos violentos às instituições islâmicas. Se Hannah Arendt estivesse viva, ela que acompanhou todo o julgamento do criminoso nazista Eichmann, faria semelhante comentário, denunciando este espírito vingativo.
Trata-se de superar o espírito de vingança e de renunciar à estratégia de enfrentar a violência com mais violência. Ela cria uma espiral de violência interminável, fazendo vítimas sem conta, a maioria delas inocentes.
Paradigmático foi o atentado terrorista de 11 de setembro de 2001 contra os Estados Unidos. A reação do Presidente Bush foi declarar a “guerra infinita” contra o terror; instituir o “ato patriótico” que viola direitos fundamentais ao permitir prender, sequestrar e submeter a afogamentos a suspeitos; criar 17 agências de segurança em todo o país e começar a espionar todo mundo no mundo inteiro, além de submeter terroristas e suspeitos em Guantánamo a condições desumanas e a torturas.
O que os USA e aliados ocidentais fizeram no Iraque foi uma guerra preventiva com uma mortandade de civis incontável. Se no Iraque houvesse somente ampla plantação de frutas e cítricos, nada disso ocorreria. Mas lá há muitas reservas de petróleo, sangue do sistema mundial de produção.
Tal violência barbárica, porque destruíu os monumentos de uma das mais antigas civilizações da humanidade, deixou um rastro de raiva, de ódio e de vontade de vingança.
A partir deste transfundo, se entende que o atentado abominável em Paris é resultado desta violência primeira e não causa originária. O efeito deste atentado é instalar o medo em toda a França e em geral na Europa. Esse efeito é visado pelo terrorismo: ocupar as mentes das pessoas e mantê-las reféns do medo.
O significado principal do terroismo não é ocupar territórios, como o fizeram os ocidentais no Afeganistão e no Iraque, mas ocupar as mentes. Essa é sua vitória sinistra.
A profecia do autor intelectual dos atentados de 11 de setembro, o então ainda não assassinado Osama Bin Laden, feita no dia  8 de outubro de 2001, infelizmente, se realizou: “Os EUA nunca mais terão segurança, nunca mais terão paz”.
Ocupar as mentes das pessoas, mantê-las desestabilizadas emocionalmente, obrigá-las a desconfiar de qualquer gesto ou de pessoas estranhas, eis o que o terrorismo almeja e nisso reside sua essência. Para alcançar seu objetivo de dominação das mentes, o terrorismo persegue a seguinte estratégia:
(1) os atos têm de ser  espetaculares, caso contrário, não causam comoção generalizada;
(2) os atos, apesar de odiados, devem provocar admiração pela sagacidade empregada;
(3) os atos devem sugerir que foram minuciosamente preparados;
(4) os atos devem ser imprevistos para darem a impressão de serem incontroláveis;
(5) os atos devem ficar no anonimato dos autores (usar máscaras) porque quanto mais suspeitos, maior o medo;
(6) os atos devem provocar permanente medo;
(7) os atos devem distorcer a percepção da realidade: qualquer coisa diferente pode configurar o terror. Basta ver alguns rolezinhos entrando nos shoppings e já se projeta a imagem de um assaltante potencial.
Formalizemos um conceito do terrorismo: é toda  violência espetacular, praticada com o propósito de ocupar as mentes com  medo e pavor.         
O importante não é a violência em si,  mas seu caráter espetacular, capaz de dominar as mentes de todos. Um dos efeitos mais lamentáveis do terrorismo foi ter suscitado o Estado terrorista que são hoje os EUA. Noam Chomsky cita um funcionário dos órgãos de segurança norte-americano que confessou: “Os USA são um Estado terrorista e nos orgulhamos disso”.
Oxalá não predomine no mundo, especialmente, no Ocidente este espírito. Aí sim, iremos ao encontro do pior. Leonardo
Boff é colunista do JBonline e escreveu: Fundamentalismo, terrorismo, religião e paz,  Vozes,  Petrópolis 2009.

Eu não sou Charlie, je ne suis pas Charlie

10/01/2015
Há muita confusão acerca do atentado terrorista em Paris, matando vários cartunistas. Quase só se ouve um lado e não se buscam as raízes mais profundas deste fato condenável mas que exige uma interpretação que englobe seus vários aspectos ocultados pela midia internacional e pela comoção legítima face a um ato criminoso. Mas ele é uma resposta a algo que ofendia milhares de fiéis muçulmanos. Evidentemente não se responde com o assassianto. Mas também não se devem criar as condições psicológicas e políticas que levem a alguns radicais a lançarem mão de meios reprováveis sobre todos os aspectos. Publico aqui um texto de um padre que é teóloogo e historiador e conhece bem a situação da França atual. Ele nos fornece dados que muitos talvez não os conheçam. Suas reflexões nos ajudam a ver a complexidade deste anti-fenômeno com suas aplicações também à situação no Brasil: Lboff
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Eu condeno os atentados em Paris, condeno todos os atentados e toda a violência, apesar de muitas vezes xingar e esbravejar no meio de discussões, sou da paz e me esforço para ter auto controle sobre minhas emoções…
Lembro da frase de John Donne: “A morte de cada homem diminui-me, pois faço parte da humanidade; eis porque nunca me pergunto por quem dobram os sinos: é por mim”. Não acho que nenhum dos cartunistas “mereceu” levar um tiro, ninguém o merece, acredito na mudança, na evolução, na conversão. Em momento nenhum, eu quis que os cartunistas da Charlie Hebdo morressem. Mas eu queria que eles evoluíssem, que mudassem… Ainda estou constrangido pelos atentados à verdade, à boa imprensa, à honestidade, que a revista Veja, a Globo e outros veículos da imprensa brasileira promoveram nesta última eleição.
A Charlie Hebdo é uma revista importante na França, fundada em 1970, é mais ou menos o que foi o Pasquim. Isso lá na França. 90% do mundo (eu inclusive) só foi conhecer a Charlie Hebdo em 2006, e já de uma forma bastante negativa: a revista republicou as charges do jornal dinamarquês Jyllands-Posten (identificado como “Liberal-Conservador”, ou seja, a direita europeia). E porque fez isso? Oficialmente, em nome da “Liberdade de Expressão”, mas tem mais…
O editor da revista na época era Philippe Val. O mesmo que escreveu um texto em 2000 chamando os palestinos (sim! O povo todo) de “não-civilizados” (o que gerou críticas da colega de revista Mona Chollet (críticas que foram resolvidas com a demissão sumaria dela). Ele ficou no comando até 2009, quando foi substituído por Stéphane Charbonnier, conhecido só como Charb. Foi sob o comando dele que a revista intensificou suas charges relacionadas ao Islã, ainda mais após o atentado que a revista sofreu em 2011…
A França tem 6,2 milhões de muçulmanos. São, na maioria, imigrantes das ex-colônias francesas. Esses muçulmanos não estão inseridos igualmente na sociedade francesa. A grande maioria é pobre, legada à condição de “cidadão de segunda classe”, vítimas de preconceitos e exclusões. Após os atentados do World Trade Center, a situação piorou.
Alguns chamam os cartunistas mortos de “heróis” ou de os “gigantes do humor politicamente incorreto”, outros muitos os chamam de “mártires da liberdade de expressão”. Vou colocar na conta do momento, da emoção. As charges polêmicas do Charlie Hebdo, como os comentários políticos de colunistas da Veja, são de péssimo gosto, mas isso não está em questão. O fato é que elas são perigosas, criminosas até, por dois motivos.
O primeiro é a intolerância. Na religião muçulmana, há um princípio que diz que o Profeta Maomé não pode ser retratado, de forma alguma. Esse é um preceito central da crença Islâmica, e desrespeitar isso desrespeita todos os muçulmanos. Fazendo um paralelo, é como se um pastor evangélico chutasse a imagem de Nossa Senhora para atacar os católicos…
Qual é o objetivo disso? O próprio Charb falou: “É preciso que o Islã esteja tão banalizado quanto o catolicismo”. “É preciso” porque? Para que?
Note que ele não está falando em atacar alguns indivíduos radicais, alguns pontos específicos da doutrina islâmica, ou o fanatismo religioso. O alvo é o Islã, por si só. Há décadas os culturalistas já falavam da tentativa de impor os valores ocidentais ao mundo todo. Atacar a cultura alheia sempre é um ato imperialista. Na época das primeiras publicações, diversas associações islâmicas se sentiram ofendidas e decidiram processar a revista. Os tribunais franceses, famosos há mais de um século pela xenofobia e intolerância (ver Caso Dreyfus), como o STF no Brasil, que foi parcial nas decisões nas últimas eleições e no julgar com dois pessoas e duas medidas caos de corrupção de políticos do PSDB ou do PT, deram ganho de causa para a revista.
Foi como um incentivo. E a Charlie Hebdo abraçou esse incentivo e intensificou as charges e textos contra o Islã e contra o cristianismo, se tem dúvidas, procure no Google e veja as publicações que eles fazem, não tenho coragem de publicá-las aqui…
Mas existe outro problema, ainda mais grave. A maneira como o jornal retratava os muçulmanos era sempre ofensiva. Os adeptos do Islã sempre estavam caracterizados por suas roupas típicas, e sempre portando armas ou fazendo alusões à violência, com trocadilhos infames com “matar” e “explodir”…). Alguns argumentam que o alvo era somente “os indivíduos radicais”, mas a partir do momento que somente esses indivíduos são mostrados, cria-se uma generalização. Nem sempre existe um signo claro que indique que aquele muçulmano é um desviante, já que na maioria dos casos é só o desviante que aparece. É como se fizéssemos no Brasil uma charge de um negro assaltante e disséssemos que ela não critica/estereotipa os negros, somente aqueles negros que assaltam…
E aí colocamos esse tipo de mensagem na sociedade francesa, com seus 10% de muçulmanos já marginalizados. O poeta satírico francês Jean de Santeul cunhou a frase: “Castigat ridendo mores” (costumes são corrigidos rindo-se deles). A piada tem esse poder. Mas piada são sempre preconceituosas, ela transmite e alimenta o preconceito. Se ela sempre retrata o árabe como terrorista, as pessoas começam a acreditar que todo árabe é terrorista. Se esse árabe terrorista dos quadrinhos se veste exatamente da mesma forma que seu vizinho muçulmano, a relação de identificação-projeção é criada mesmo que inconscientemente. Os quadrinhos, capas e textos da Charlie Hebdo promoviam a Islamofobia. Como toda população marginalizada, os muçulmanos franceses são alvo de ataques de grupos de extrema-direita. Esses ataques matam pessoas. Falar que “Com uma caneta eu não degolo ninguém”, como disse Charb, é hipócrita. Com uma caneta se prega o ódio que mata pessoas…
Uma das defesas comuns ao estilo do Charlie Hebdo é dizer que eles também criticavam católicos e judeus…
Se as outras religiões não reagiram a ofensa, isso é um problema delas. Ninguém é obrigado a ser ofendido calado.
“Mas isso é motivo para matarem os caras!?”. Não. Claro que não. Ninguém em sã consciência apoia os atentados. Os três atiradores representam o que há de pior na humanidade: gente incapaz de dialogar. Mas é fato que o atentado poderia ter sido evitado. Bastava que a justiça tivesse punido a Charlie Hebdo no primeiro excesso, assim como deveria/deve punir a Veja por suas mentiras. Traçasse uma linha dizendo: “Desse ponto vocês não devem passar”.
“Mas isso é censura”, alguém argumentará. E eu direi, sim, é censura. Um dos significados da palavra “Censura” é repreender. A censura já existe. Quando se decide que você não pode sair simplesmente inventando histórias caluniosas sobre outra pessoa, isso é censura. Quando se diz que determinados discursos fomentam o ódio e por isso devem ser evitados, como o racismo ou a homofobia, isso é censura. Ou mesmo situações mais banais: quando dizem que você não pode usar determinado personagem porque ele é propriedade de outra pessoa, isso também é censura. Nem toda censura é ruim…
Deixo claro que não estou defendendo a censura prévia, sempre burra. Não estou dizendo que deveria ter uma lista de palavras/situações que deveriam ser banidas do humor. Estou dizendo que cada caso deveria ser julgado. Excessos devem ser punidos. Não é “Não fale”. É “Fale, mas aguente as consequências”. E é melhor que as consequências venham na forma de processos judiciais do que de balas de fuzis ou bombas.
Voltando à França, hoje temos um país de luto. Porém, alguns urubus são mais espertos do que outros, e já começamos a ver no que o atentado vai dar. Em discurso, Marine Le Pen declarou: “a nação foi atacada, a nossa cultura, o nosso modo de vida. Foi a eles que a guerra foi declarada”. Essa fala mostra exatamente as raízes da islamofobia. Para os setores nacionalistas franceses (de direita, centro ou esquerda), é inadmissível que 10% da população do país não tenha interesse em seguir “o modo de vida francês”. Essa colônia, que não se mistura, que não abandona sua identidade, é extremamente incômoda. Contra isso, todo tipo de medida é tomada. Desde leis que proíbem imigrantes de expressar sua religião até… charges ridicularizando o estilo de vida dos muçulmanos! Muitos chargistas do mundo todo desenharam armas feitas com canetas para homenagear as vítimas. De longe, a homenagem parece válida. Quando chegam as notícias de que locais de culto islâmico na França foram atacados, um deles com granadas!, nessa madrugada, a coisa perde um pouco a beleza. É a resposta ao discurso de Le Pen, que pedia para a França declarar “guerra ao fundamentalismo” (mas que nos ouvidos dos xenófobos ecoa como “guerra aos muçulmanos”, e ela sabe disso).
Por isso tudo, apesar de lamentar e repudiar o ato bárbaro do atentado, eu não sou Charlie. Je ne suis pas Charlie.

quinta-feira, 23 de outubro de 2014

LA COMUNIONE DEI BENI A GERUSALEMME E AD ANTIOCHIA


LA COMUNIONE DEI BENI A GERUSALEMME E AD ANTIOCHIA
LETTURA ATTUALIZZANTE DEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI
(At 4,32-5,6; 11,26-30)
“Vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; e vieni! Seguimi!” (Lc 18,22);
“Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito ai singoli secondo il bisogno di ciascuno” (At 4, 34-35).
Tra la condizione posta da Gesù al notabile “molto ricco” per seguirlo e la prassi della comunità giudeo-credente di Gerusalemme, non c’è alcuna continuità. Mentre Gesù chiede al ricco di sbarazzarsi di tutti i suoi beni e di darli ai poveri, i primi giudeo-credenti vendono i loro beni, ma, anziché dare il ricavato ai poveri, lo capitalizzano, accumulandolo all’interno della loro comunità.
È evidente che il modello economico della primitiva comunità giudeo-credente non si ispira alle parole di Gesù ma a quello, già conosciuto, delle comunità monastiche essene : “La regola è che chi entra metta il suo patrimonio a disposizione della comunità, sì che in mezzo a loro non si vede né lo squallore della miseria, né il fasto della ricchezza, ed essendo gli averi di ciascuno uniti insieme, tutti hanno un unico patrimonio come tanti fratelli” .
La buona notizia
Gli Atti degli Apostoli formano la seconda parte dell’opera composta da Luca (At 1,1) . Se nella prima parte l’evangelista presenta l’insegnamento e le opere del Cristo, nella seconda segnala le luci e le ombre della pratica del vangelo e di come questo venne inteso, o frainteso, dalle comunità che stavano nascendo. Fin dalle prime righe del vangelo di Luca si avverte la sua preoccupazione per l’aspetto sociale, per il tema del denaro e quello della povertà. Delle quattro volte che nel Nuovo Testamento appare la parola mamona , ben tre sono in Luca . Mentre i rabbini distinguevano tra mamona menzognera e verace , per Gesù mamona è sempre disonesta, cioè ac¬quisita in maniera ingiusta e l’unico suo riscatto è usarla per fare del bene . Gesù pone i suoi discepoli di fronte a una scelta radicale: “Non potete servire Dio e mamona” (Lc 16,13). Il servizio a Dio e l’accumulo della ricchezza sono incompatibili poiché la fiducia nel dio-denaro porta al disprezzo del Signore . Pensare di poter usare la ricchezza per meglio servirlo è un tradimento del messaggio di Gesù e una tentazione diabolica (Lc 4,5-6).
Già nel cantico posto in bocca a Maria, Luca descrive un Signore che mentre “ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote” (Lc 1,53; Sal 107,9), e nella predicazione di Giovanni il Battista è sempre presente il richiamo alla giustizia sociale .
Quando Gesù compare, le sue prime parole sono per annunciare la fine della povertà per i miseri, perché lo Spirito, ricevuto al momento del battesimo, lo “ha mandato per annunziare la buona notizia ai poveri” (Lc 4,18), e la buona notizia che i poveri attendono non è altro che la fine della loro indigenza.
I primi discepoli chiamati da Gesù comprendono di dover orientare diversamente la loro esistenza e di dover fare una scelta radicale, per questo “tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono” (Lc 5,11.28), e Gesù li dichiara “beati” perché questa scelta per la povertà consente loro di sperimentare la signoria di Dio (Lc 6,20). Gesù piange come morti i ricchi , presentati come persone meschine che, anziché possedere i beni, ne vengono possedute: “Stupido, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” (Lc 12,20)
Nella parabola del ricco e di Lazzaro, la descrizione che Gesù fa dell’uomo ricco è eloquente. Il contesto della parabola è quello di una polemica tra Gesù e “i farisei, che erano attaccati al denaro, e ascoltavano tutte queste cose e si burlavano di lui” (Lc 16,14), e il racconto inizia con l’illustrazione, contenuta in un solo versetto, del ricco: “C’era un uomo ricco, che portava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti” (Lc 16,19). Il ricco tenta di mascherare la povertà interiore con lo splendore delle vesti, e di saziare la fame di pienezza di vita con l’abbondanza di cibo. Lo sfarzo della sua esistenza nasconde la miseria della sua vita. Pensa di essere ricco, di non aver bisogno di nulla, “ma non sa di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo” (Ap 3,17).
Per Gesù il valore dell’individuo consiste nel suo essere generoso (Lc 11,34-36). Per questo nel suo insegnamento invita a donare e di donarsi generosamente, per essere simili al Padre (Lc 6,31-38) e per sperimentare sempre, in ogni istante, la sua tenera e vigile presenza (Lc 12,22-31).
Nell’unica preghiera che insegna, Gesù invita i suoi discepoli a cancellare i debiti dei debitori (Lc 11,4). Non è possibile che nella comunità che ha fatto la scelta delle beatitudini vi siano creditori e debitori. Se ciò accade è perché al suo interno esistono dei pseudo-discepoli che non hanno accolto la condizione posta da Gesù: “Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (Lc 15,32). Il Signore esclude categoricamente che nella comunità dei credenti possano entrare dei ricchi . La comunità di Gesù, il Signore, è composta tutta da signori, ma non da ricchi. “Signore” è colui che dà, il ricco è colui che ha. Tutti possono dare generosamente, meno i ricchi, che sono tali appunto perché non sono generosi .
Un cuor solo?
Molte comunità religiose hanno preso come modello di vita la primitiva comunità giudeo-credente descritta da Luca negli Atti: “Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno… Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito ai singoli secondo il bisogno di ciascuno” (At 2,44-45; 4, 34-35).
Secondo questo modello gli apostoli erano divenuti gli amministratori dei beni comunitari . Con il termine apostolo gli evangelisti non indicano tanto un titolo quanto una funzione, che è appunto quella di essere inviato, messaggero per un determinato compito . Gesù aveva chiamato i discepoli per inviarli “ad annunziare il regno di Dio” (Lc 9,2) ed essere suoi testimoni “fino agli estremi confini della terra” (At 1,8); e aveva chiesto loro di “non prendere nulla per il viaggio, né bastone, né bisaccia, né pane, né denaro” (Lc 9,3) e di non stare con l’animo in ansia per il proprio sostentamento (Lc 12,29), dando così prova di fidarsi completamente dell’assistenza di quel Padre che dona queste cose ai suoi in sovrabbondanza (Lc 12,31). Ora questi discepoli si sono trasformati in sedentari amministratori della comunità ed esercitano un potere che viene unanimemente riconosciuto .
Gli inconvenienti di questo sistema economico emergono subito. Infatti, a Giuseppe, detto Barnaba, che vende i suoi averi consegnandoli ai piedi dei discepoli, l’evangelista contrappone una coppia, Anania e Saffira, che prudentemente consegna solo una parte del ricavato agli apostoli tenendo il resto per sé (At 5,1-11). Nel preciso momento in cui si è ricorsi ad amministratori dei beni della comunità è iniziata l’ipocrisia e la finzione.
Quella di Luca non è l’esaltazione di un modello, ma una severa critica dello stesso. La comunione di beni adottata dalla comunità giudeo-credente di Gerusalemme con la creazione di un’amministrazione centralizzata, fu un fallimento: due terzi della comunità (Anania e Safira contro Giuseppe Barnaba) ricorsero alla simulazione per sfuggire al controllo degli amministratori, portando così la comunità alla rovina.
Se l’ideale, vantato dalla comunità di Gerusalemme, era che “la moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune” (At 4,32), la realtà mostrava un volto diverso. Di fatto in questa comunità emergeranno subito gravi ingiustizie che faranno sorgere “un malcontento fra gli Ellenisti verso gli Ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana” (At 6,1). È evidente che non solo la comunione di beni non funzionava, ma ad esser emarginate erano proprio le categorie più deboli . Da questi elementi l’evangelista fa già presagire la fame e la povertà che questa comunità dovrà patire (At 11,28-29).
Un modello cristiano
La comunità giudeo-credente di Gerusalemme, almeno inizialmente, ha mostrato di non aver compreso la radicalità assoluta che esige il messaggio del Cristo e si è conformata alle istituzioni religiose giudaiche, “godendo del favore di tutto il popolo” (At 2,47). Quello di Luca non è un benemerito attestato alla comunità di Gerusalemme, ma una denuncia del suo comportamento. Questa comunità non gode del favore di Dio, ma di tutto il popolo, dimentica del monito di Gesù: “Ahi a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti” (Lc 6,26).
Nonostante Gesù avesse dichiarato il Tempio “un covo di ladri” (Lc 19,45), e ne avesse annunciato la totale distruzione (Lc 21,5), la comunità giudeo-credente di Gerusalemme continua a crederlo un’istituzione ancora valida e seguita a frequentarlo . È sorprendente leggere che di questa comunità fanno parte persino i farisei (At 15,5), i pii osservanti che hanno considerato Gesù un bestemmiatore (Lc 5,21.30), farisei che non sembrano minimamente sfiorati dalla novità portata da Gesù e continuano a imporre la circoncisione e altre pratiche religiose (At 15,1.5). A Gerusalemme la Legge, che Gesù ha ignorato e trasgredito , viene ancora creduta valida, come dichiarerà Giacomo a Paolo: “Tu vedi, fratello, quante migliaia di Giudei sono venuti alla fede e tutti sono osservanti della Legge” (At 21,20).
Ma c’è un’altra comunità, nata in terra pagana per opera di evangelizzatori provenienti dal mondo e dalla cultura greca, non vincolati dai nazionalismi dei discepoli di Gerusalemme, che “non proclamavano la Parola a nessuno fuorché ai Giudei” (At 11,19), i quali iniziano ad annunziare il vangelo anche ai pagani: “Alcuni di loro, cittadini di Cipro e di Cirene, giunti ad Antiòchia, cominciarono a parlare anche ai Greci, annunziando la buona notizia del Signore Gesù” (At 11,20).
E qui, in terra pagana, accade un fatto insperato: “E la mano del Signore era con loro e così un gran numero credette e si convertì al Signore” (At11,21). La “mano del Signore” è un segno di benedizione (At 4,30; 11,21), espressione dell’azione divina che accompagna e benedice l’attività degli evangelizzatori, e il risultato è che “ad Antiòchia per la prima volta i discepoli furono chiamati Cristiani” (At 11,26). Il Signore potenzia l’attività degli evangelizzatori perché questi realizzano il suo progetto d’amore universale dal quale nessuno è escluso.
Luca contrappone due comunità, quella di Gerusalemme, legata alle istituzioni religiose giudaiche, e quella sorta in terra pagana, ad Antiòchia, dove i credenti, per la prima volta, non sono più considerati una delle tante sette giudaiche, ma qualcosa di nuovo: seguaci del Cristo. La mano del Signore è su Antiòchia e non a Gerusalemme. Una volta che il messaggio di Gesù è stato liberato dalla camicia di forza della Legge e delle tradizioni religiose, lo Spirito ha potuto portare frutto abbondante.
Mentre ad Antiòchia i discepoli vengono riconosciuti come Cristiani, si viene a sapere che sarebbe “scoppiata una grave carestia su tutta la terra, ciò che di fatto avvenne sotto l’impero di Claudio” (At 11,27-28) . La reazione dei cristiani antiocheni all’annuncio della carestia, che avrebbe colpito anche loro (“su tutta la terra”), è esemplare. Anziché pensare a se stessi si preoccupano subito di soccorrere i fratelli “abitanti nella Giudea” (At 11,29). Gli antiocheni, che hanno accolto la buona notizia, credono nelle parole di Gesù , e hanno completa fiducia nel Padre che conosce ciò di cui la comunità ha bisogno (Lc 12,30-31).
Mentre a Gerusalemme i credenti non possiedono nulla, tutto è in comune, e si trovano nell’indigenza, ad Antiochia il modello di comunità è differente. Qui i credenti possiedono e decidono, in piena libertà, di donare l’aiuto ai fratelli Giudei: “I discepoli si accordarono, ciascuno secondo quello che possedeva, di mandare un soccorso ai fratelli abitanti in Giudea” (At 11,29).
Dalla necessità di soccorrere la comunità giudeo-credente di Gerusalemme, dove la colletta verrà inviata (At 21,17), si vede che la tanto esaltata comunione dei beni non ha dato alcun risultato positivo. Questa comunità, che si vantava che nessuno dei componenti “tra loro era bisognoso” (At 4, 34), in realtà ha avuto bisogno di “una colletta a favore dei poveri che sono nella comunità di Gerusalemme” (Rm 15,26).
Criticando con tanta severità la comunità di Gerusalemme, centrata nella comunione dei beni attraverso la capitalizzazione comunitaria degli stessi, l’evangelista pone in evidenza quale è l’atteggiamento conforme al messaggio di Gesù: la comunicazione libera e responsabile dei propri beni, senza necessità di amministratori o di controlli interni o di imposizioni (tasse e decime), senza preoccuparsi delle proprie necessità ma di quelle degli altri.
La dipendenza economica mantiene le persone in uno stato infantile, la responsabile gestione dei propri beni è segno di maturità e dell’età adulta. Mentre la persona infantile è centrata sui propri bisogni, la caratteristica della persona adulta e matura è di occuparsi degli altri.
Laddove c’è libertà c’è lo Spirito (2 Cor 3,17) che spinge gli uomini a liberarsi dall’egoismo e dal pensare alle proprie necessità per aprirsi ai bisogni e alle necessità degli altri, in sintonia con la generosità della creazione.
I fedeli di Gerusalemme e quelli di Antiochia credono nello stesso Signore, ma sono riconosciuti come cristiani solo quelli di Antiochia, gli unici che, anziché pensare a se stessi, si preoccupano per gli altri.
Alberto Maggi

sábado, 11 de outubro de 2014

As eleições atuais à luz da história antipovo

As eleições atuais à luz da história antipovo

11/10/2014

Nada melhor do que ler as atuais eleições à luz da história brasileira na tensão entre as elites e o povo. Valho-me da uma contribuição de um sério historiador com formação em Roma, em Lovaina e na USP de São Paulo o Pe. José Oscar Beozzo, uma das inteligências mais brilhantes de nosso clero.
Diz Beozzo: “a questão de fundo em nossa sociedade é a do direito dos pequenos à vida sempre ameaçada pela abissal desigualdade de acesso aos meios de vida e pelas exíguas oportunidades abertas às grandes maiorias do andar debaixo.
Como nos ensina Caio Prado Júnior, nossa sociedade desigual repousa sobre quatro pilares difíceis de serem movidos: a) a grande propriedade da terra concentrada nas mãos de poucos de tal modo que não haja terra “livre” e “disponível” para quem trabalha ou para os que eram seus donos originários; b) o predomínio da monocultura; c) a produção voltada para o mercado externo (açúcar, tabaco, algodão, café e hoje soja; d) o regime de trabalho escravo.
A independência de Portugal não alterou nenhum destes pilares. Os que naquela época sonharam com um Brasil diferente, propunham a troca da grande pela pequena propriedade nas mãos de quem trabalhava; da monocultura para a policultura; da produção para o mercado internacional por outra voltada para o autoconsumo e para o abastecimento do mercado interno; do trabalho escravo pelo trabalho familiar livre. Isso pôde acontecer em quenas regiões da serra gaúcha e de Santa Catarina, com colonos alemães, italianos, poloneses, hoje um campo mais democratizado.
Houve geral oposição dos grandes proprietários escravistas a qualquer dessas medidas e foram matados a ferro e fogo levantes populares que apontavam para qualquer medida democratizante na economia, na política e sobretudo nas relações de trabalho. Basta rememorar algumas dessas revoltas: a insurreição dos escravos Malês na Bahia, a Balaiada no Maranhão, a Cabanagem na Amazônia, a revolução Praieira em Pernambuco, a Farroupilha no Sul.
A monarquia caiu menos por seus anacronismos do que pela Lei Áurea que lhe retirou o apoio dos barões do café escravocratas e das chamadas classes “produtoras”, como se os produtores não fossem os escravos que trabalhavam.
A revolução de 30, com seu viés nacionalista, mesmo que parcialmente, deslocou o eixo do país do mercado externo para o interno; do modelo agrário exportador para o de substituição de importações; do domínio das elites exportadoras do café do pacto Minas/São Paulo, para novas lideranças das zonas de produção para o mercado interno, como as do arroz e charque do Rio Grande do Sul; do voto censitário, para o voto “universal” (menos para os analfabetos, naquela época ainda maioria entre os adultos), do voto exclusivamente masculino para o voto feminino; das relações de trabalho ditadas apenas pelo poder dos patrões para a sua regulação, pelo menos na esfera industrial com a criação do Ministério do Trabalho e das leis trabalhistas voltadas para a classe operária . Não se conseguiu tocar o domínio incontornável dos proprietários de terra na regulação das relações de trabalho dentro de suas propriedades, o que só vai acontecer depois de 1964.
Getúlio implantou uma política corporativista de apaziguamento entre as classes e de “cooperação” entre capital e trabalho, entre operários e os capitães da indústria em torno de um projeto de industrialização e defesa dos interesses nacionais. Ele criou as bases para o Brasil moderno.
Nesta campanha eleitoral certos meios de comunicação criaram o motto: “Fora PT”. Busca-se acabar com a “ditadura” do PT, para deixar campo livre para instaurar a “ditadura do mercado financeiro”. O que realmente incomoda? A corrupção e o mensalão?
A meu ver, o que incomoda, em que pesem todos seus limites, são as medidas democratizantes como o Pro-Uni, as cotas nas universidades para os estudantes vindos da escola pública e não dos colégios particulares; as cotas para aqueles cujos avós vieram dos porões da escravidão; a reforma agrária, ainda que muito aquém de tudo o que seria necessário, como sempre nos lembrou Dom Tomás Balduino; a demarcação e homologação em área contínua da terra Yanomami contra a grita de meia dúzia de arrozeiros apoiados pelo coro unânime dos latifundiários e do agronegócio, assim como todos os programas sociais do Bolsa Família, ao Luz para Todos, ao Minha Casa, minha Vida, o Mais Médicos e daí para frente.
Nunca incomodou a estes críticos que o Estado pagasse o estudo de jovens estudantes de famílias ricas que deram a seus filhos boa educação em escolas particulares, o que lhes franqueou o acesso ao ensino gratuito nas universidades públicas aprofundando e consolidando a desigualdade de oportunidades. Esse estudo custa mensalmente ao Estado no caso de cursos como o de Medicina de seis a sete mil reais. Nunca protestaram essas famílias contra essa “bolsa-esmola” dada aos ricos, e que é vista como “direito” devido a seus méritos e não como puro e escandaloso privilégio. São os mesmos que se recusam a ser médicos nos interiores e nas periferias que não dispõem de um médico sequer.
Os que sobem o tom dizendo que tudo no país está errado, em que pese a melhoria do salário mínimo, a criação de milhões de empregos, a ampliação das políticas sociais em direção aos mais pobres, a criação do Mais-Médicos, posicionam-se contra as políticas do PT que visam a assegurar direitos cidadãos, ampliar a democratização da sociedade, combater privilégios e sobretudo colocar um pouco de freio (insuficiente a meu ver) à ganância e à ditadura do capital financeiro e do “mercado”.
É esta a razão do meu voto para outro projeto de país, que atende às demandas sempre negadas às grandes maiorias. É por isso, que votei Dilma no primeiro e o farei no segundo turno, respeitando as ponderações e escolhas dos que enxergam um caminho diferente e viável para o momento atual” (jbeozzo@terra.com.br). É esse também o meu pensamento.

DADOS GOVERNOS FHC/PSDB E LULA-DILMA/PT POR HILDEGARD ANGEL, jornalista

DADOS GOVERNOS FHC/PSDB E LULA-DILMA/PT POR HILDEGARD ANGEL, jornalista

11/10/2014

Com a eventual vitória de Aécio Neves, voltará em cheio o projeto neoliberal que não deu certo nem aqui nem nos países centrasis com uma crise abissal e 102 milhões de desempregados. O futuro ministro da Fazenda Arminio Fraga já sinalizou para onde vai a direção do Governo ao dizer: “dos bancos públicos (Banco do Brasil, Caixa Econômica e BNDS) com as correções a serem feitas, vai sobrar pouca coisa”; e disse algo assustador para quem vive de salário:”os salários estão altos demais”; há que rebaixá-los. Cada umm vota conforme sua preferência, mas pense antes nas consequências globais para o país e para quem mais precisa de meios para viver que são as grandes maiorias pobres: Lboff
Sobre o segundo turno das eleições presidenciais (Por que a grande imprensa brasileira nunca publicou esses dados com destaque?)
Comparando o Brasil de 2002 (Fernando Henrique Cardoso) ao de 2013 (Lula/ Dilma)… segundo a OMS, a ONU, o Banco Mundial, o IBGE, o Unicef etc…
Publicado em 15/09/2014 > http://www.hildegardangel.com.br/?p=41715
Leiam e tirem as suas próprias conclusões….
1. Produto Interno Bruto:
2002 – R$ 1,48 trilhões
2013 – R$ 4,84 trilhões
2. PIB per capita:
2002 – R$ 7,6 mil
2013 – R$ 24,1 mil
3. Dívida líquida do setor público:
2002 – 60% do PIB
2013 – 34% do PIB
4. Lucro do BNDES:
2002 – R$ 550 milhões
2013 – R$ 8,15 bilhões
5. Lucro do Banco do Brasil:
2002 – R$ 2 bilhões
2013 – R$ 15,8 bilhões
6. Lucro da Caixa Econômica Federal:
2002 – R$ 1,1 bilhões
2013 – R$ 6,7 bilhões
7. Produção de veículos:
2002 – 1,8 milhões
2013 – 3,7 milhões
8. Safra Agrícola:
2002 – 97 milhões de toneladas
2013 – 188 milhões de toneladas
9. Investimento Estrangeiro Direto:
2002 – 16,6 bilhões de dólares
2013 – 64 bilhões de dólares
10. Reservas Internacionais:
2002 – 37 bilhões de dólares
2013 – 375,8 bilhões de dólares
11. Índice Bovespa:
2002 – 11.268 pontos
2013 – 51.507 pontos
12. Empregos Gerados:
Governo FHC – 627 mil/ano
Governos Lula e Dilma – 1,79 milhões/ano
13. Taxa de Desemprego:
2002 – 12,2%
2013 – 5,4%
14. Valor de Mercado da Petrobras:
2002 – R$ 15,5 bilhões
2014 – R$ 104,9 bilhões
15. Lucro médio da Petrobras:
Governo FHC – R$ 4,2 bilhões/ano
Governos Lula e Dilma – R$ 25,6 bilhões/ano
16. Falências Requeridas em Média/ano:
Governo FHC – 25.587
Governos Lula e Dilma – 5.795
17. Salário Mínimo:
2002 – R$ 200 (1,42 cestas básicas)
2014 – R$ 724 (2,24 cestas básicas)
18. Dívida Externa em Relação às Reservas:
2002 – 557%
2014 – 81%
19. Posição entre as Economias do Mundo:
2002 – 13ª
2014 – 7ª
20. PROUNI – 1,2 milhões de bolsas
21. Salário Mínimo Convertido em Dólares:
2002 – 86,21
2014 – 305,00
22. Passagens Aéreas Vendidas:
2002 – 33 milhões
2013 – 100 milhões
23. Exportações:
2002 – 60,3 bilhões de dólares
2013 – 242 bilhões de dólares
24. Inflação Anual Média:
Governo FHC – 9,1%
Governos Lula e Dilma – 5,8%
25. PRONATEC – 6 Milhões de pessoas
26. Taxa Selic:
2002 – 18,9%
2012 – 8,5%
27. FIES – 1,3 milhões de pessoas com financiamento universitário
28. Minha Casa Minha Vida – 1,5 milhões de famílias beneficiadas
29. Luz Para Todos – 9,5 milhões de pessoas beneficiadas
30. Capacidade Energética:
2001 – 74.800 MW
2013 – 122.900 MW
31. Criação de 6.427 creches
32. Ciência Sem Fronteiras – 100 mil beneficiados
33. Mais Médicos (Aproximadamente 14 mil novos profissionais): 50 milhões de beneficiados
34. Brasil Sem Miséria – Retirou 22 milhões da extrema pobreza
35. Criação de Universidades Federais:
Governos Lula e Dilma – 18
Governo FHC – zero
36. Criação de Escolas Técnicas:
Governos Lula e Dilma – 214
Governo FHC – 0
De 1500 até 1994 – 140
37. Desigualdade Social:
Governo FHC – Queda de 2,2%
Governo PT – Queda de 11,4%
38. Produtividade:
Governo FHC – Aumento de 0,3%
Governos Lula e Dilma – Aumento de 13,2%
39. Taxa de Pobreza:
2002 – 34%
2012 – 15%
40. Taxa de Extrema Pobreza:
2003 – 15%
2012 – 5,2%
41. Índice de Desenvolvimento Humano:
2000 – 0,669
2005 – 0,699
2012 – 0,730
42. Mortalidade Infantil:
2002 – 25,3 em 1000 nascidos vivos
2012 – 12,9 em 1000 nascidos vivos
43. Gastos Públicos em Saúde:
2002 – R$ 28 bilhões
2013 – R$ 106 bilhões
44. Gastos Públicos em Educação:
2002 – R$ 17 bilhões
2013 – R$ 94 bilhões
45. Estudantes no Ensino Superior:
2003 – 583.800
2012 – 1.087.400
46. Risco Brasil (IPEA):
2002 – 1.446
2013 – 224
47. Operações da Polícia Federal:
Governo FHC – 48
Governo PT – 1.273 (15 mil presos)
48. Varas da Justiça Federal:
2003 – 100
2010 – 513
49. 38 milhões de pessoas ascenderam à Nova Classe Média (Classe C)
50. 42 milhões de pessoas saíram da miséria
FONTES:
47/48 – http://www.dpf.gov.br/agencia/estatisticas
39/40 – http://www.washingtonpost.com
42 – OMS, Unicef, Banco Mundial e ONU
37 – índice de GINI: http://www.ipeadata.gov.br
45 – Ministério da Educação
13 – IBGE
26 – Banco Mundial
Notícias, Informações e Debates sobre o Desenvolvimento do Brasil: http://www.desenvolvimentistas.com.br

sexta-feira, 10 de outubro de 2014

Os impostores do Ministério da Ordem

Os impostores do Ministério da Ordem

O meu amigo, Pe. José Antônio, do clero da arquidiocese de Mariana (MG), com quem tive a grata satisfação de trabalhar no Setor Vocações e Ministérios da CNBB (1999-2003), em recente artigo divulgado na internet, levantava a pergunta acerca do principal medo do papa Francisco. A pergunta poderia ser muito bem invertida para evidenciar quais são as pessoas que, na Igreja Católica, mais temem as audaciosas propostas de renovação apresentadas pelo papa Francisco, e que, a meu ver, estão condensadas na sua exortação Evangelli Gaudium. Quem, na Igreja Romana, teria medo de propostas como esta: “Convido todos a serem ousados e criativos nesta tarefa de repensar os objetivos, as estruturas, o estilo e os métodos evangelizadores das respectivas comunidades” (EG, 33)?
Com certeza estariam em primeiro lugar os grupos católicos ultraconservadores, bem representados pela Fraternidade São Pio V, fundada pelo bispo cismático Lefebvre. Porém, os conservadores católicos não causam tanto medo ao papa e nem o papa lhes provoca medo. Reagir a toda mudança na Igreja está no DNA desses grupos, os quais acreditam piamente que o único modelo histórico de Igreja é aquele construído a partir do Concílio de Trento, ou, pior ainda, a partir do espírito da Contrarreforma.
Quem, então, causaria medo ao papa Francisco, ou, melhor dizendo, quem tem medo das propostas do papa Francisco? Pe. José Antônio, sem rodeios, afirma que é o “clero camaleônico”, ou seja, aqueles padres que vendo o ministério ordenado como status, como profissão bastante rentável, como pedestal para a fama e o sucesso, temem um papa que insiste em dizer que o ministério ordenado é serviço e que os padres precisam “sentir o cheiro das ovelhas”.
Prosseguindo em sua reflexão, o Pe. José Antônio alerta para um particular assustador: a quase totalidade desse “clero camaleônico” é formada por padres jovens e por seminaristas, futuros padres, que já se comportam como se fossem ministros ordenados. É assustador porque era de se esperar que padres jovens e seminaristas, formados depois do Concílio Vaticano II, fossem capazes de acolher com entusiasmo e paixão a proposta de renovação da Igreja apresentada pelo papa Francisco. Mas não é isso que estamos vendo. Boa parte deste clero permanece indiferente ao que o papa Francisco vem dizendo. Sinal claro dessa indiferença é a falta de divulgação, de conhecimento, de estudo e de aplicação pastoral da exortação Evangelli Gaudium. Pude constatar isso pessoalmente em recente assessoria a um grupo numeroso de pessoas, na sua quase totalidade formada por leigos, sobre a exortação papal. A queixa geral era de que os padres não falam da Evangelli Gaudium. Constatou-se inclusive o caso de padres que nem sequer sabiam da existência da exortação. Há poucos dias uma senhora de uma paróquia do interior da Bahia perguntava ao jovem pároco de sua cidade porque na sacristia da igreja paroquial ainda não tinha sido colocada a fotografia do papa Francisco. Queria saber porque tudo tinha parado na foto do papa Bento XVI. O pároco respondeu-lhe que a razão era o fato de que os vidraceiros da cidade estavam sem moldura. Conversa essa que não colou, pois a senhora, do alto da sua experiência de idosa, percebeu que o pároco estava mentindo.
Mas há também aquele grupo de padres e de seminaristas que faz de conta que acolhe as propostas do papa Francisco. Age, porém, como camaleão, por mero oportunismo e para continuar levando vantagem em tudo, visando não perder as benesses oferecidas pelo acesso ao ministério ordenado. Este grupo de clericais externamente faz de conta que aderiu ao papa Francisco, mas, na prática, sempre que pode, oculta, desvirtua e desvia os ensinamentos papais, não permitindo que o povo tome conhecimento daquilo que o papa Francisco está propondo com certa insistência.
Diante do que acabamos de expor vem de imediato a pergunta: o que leva padres e seminaristas a agir desta forma? Por que temem o papa Francisco? Por que agem com indiferença ou fazendo de conta que acolhem a palavra do bispo de Roma?
Inúmeros estudos publicados nos últimos anos explicam de modo suficiente este problema. São estudos com dados incontestáveis, baseados em pesquisas sérias. A própria Conferência Nacional dos Bispos do Brasil (CNBB), a Organização dos Seminários e Institutos do Brasil (OSIB) e a Comissão Nacional de Presbíteros (CNP) patrocinaram alguns desses estudos,
Duas causas estariam por trás desse comportamento. A primeira delas é a visão de vocação presbiteral como sendo a vocação por excelência. Ser padre é “dez”, é estar acima de qualquer coisa. Chegar a ser padre é colocar-se acima de tudo e de todos os mortais. A segunda causa seria o desejo das dioceses de suprir a falta de padres, levando-as a admitir nos seminários e no presbitério verdadeiros impostores que olham para o ministério ordenado como a forma mais fácil de adquirir poder, status, fama e dinheiro. A tais pessoas não lhes importa o serviço ao povo, mas as vantagens que vão ter com o acesso ao ministério ordenado.
A filósofa, socióloga e teóloga Arlene Denise Bacarji realizou recentemente um estudo sobre essa questão, baseando-se em dados de pesquisas feitas em diversas partes do mundo por eminentes pesquisadores. O próprio título do seu estudo é, por si mesmo, bem sugestivo: A impostura no Ministério da Ordem. Transtornos de personalidade e perversão no Clero à luz da psicanálise e da psiquiatria. O estudo acaba de ser publicado pessoalmente pela autora. É lamentável que ela não tenha encontrado uma editora católica capaz de assumir a publicação, obrigando-a a fazer uma edição privada. Essa recusa não deixa de trazer um grande prejuízo para a própria Igreja Católica.
Em seu estudo, depois de analisar a origem do problema da impostura no Ministério da Ordem, a autora se detém cuidadosamente na reflexão sobre os transtornos e as perversões dentro dos quadros da Igreja, particularmente entre o clero. Fala dos desvios institucionais, de personalidade antissocial, narcisista patológica e sobre as perversões propriamente ditas. No final aponta algumas possibilidades de saída do impasse.
Arlene Bacarji mostra como a natureza hierárquica, uma falsa compreensão da misericórdia, a segurança que o ministério ordenado proporciona e o celibato visto como um modo de não se relacionar em profundidade com ninguém atraem com muita facilidade pessoas com transtorno de personalidade e muita gente perversa. A pessoa com essas patologias “sempre consegue um bispo desavisado, misericordioso, confiante em sua remissão, que o acolherá” (p. 36). Bacarji lembra que o sistema eclesiástico favorece tais pessoas, uma vez que “elas aprendem rapidamente como subir em postos de poder, como fazer para serem elevados a bispos, cardeais” (p. 43).
A autora apresenta o perfil do impostor no Ministério da Ordem: “O poder, o brilho, o sucesso, só dependem de sua eloquência no altar, de sua capacidade de sedução e poder de atração, e de sua capacidade retórica, persuasão, de introjetar os sentimentos e emoções na sua fala de modo que impressione o público, para que seja admirado, endeusado e adorado. O altar se torna um palco. Pois a oficialização desse poder já está dada. A impostura no Ministério da Ordem por estas personalidades todas que tratamos neste livro se caracteriza pela grandessíssima capacidade da pessoa de fazer ‘teatro’. Elas representam muito bem” (p. 43). E representam tão bem que são capazes de camuflar a aversão ao papa Francisco e ao que ele propõe, bastando para tanto apenas um “discurso bonito” (p. 44), ou seja, aquele discurso lacunar, através do qual a pessoa fala um monte de baboseira que seduz os desprovidos de senso crítico, mas que não diz absolutamente nada.
O que fazer? Existem saídas? É claro que sim. O problema é saber se os bispos estão dispostos a coloca-las em prática. Eu aponto pelo menos três. A primeira delas é desmistificar a figura do padre, retirando dele toda auréola sacral que o envolve. Apresentá-lo como um homem comum, normal, igual aos outros, chamado por Deus a ser diákonos, ou seja, mero servidor dos demais. Homem sinal sacramental de Cristo servo de todos, que veio para servir e não para ser servido (Mc 10,35-45). Nessa perspectiva o acento deve ser colocado sobre avocação comum batismal, como nos lembrou o Vaticano II na Lumen Gentium. O importante não é ser padre, mas discípulo, seguidor de Jesus, missionário, como enfatiza diversas vezes o Documento de Aparecida.
Uma segunda saída seria a revisão do atual modelo de ministério ordenado, focado excessivamente no padre celibatário que passa entre oito e nove anos no seminário e que sai de lá bastante treinado para ser “aparentemente normal”, mas que, na prática, é uma pessoa cindida, tendendo para a mentira crônica (Bacarji, p. 45-64). Não há como resolver o problema da impostura no ministério ordenado enquanto não se fizer uma reforma séria no ministério ordenado, incluindo nele novas formas de ministérios que descentralizem o poder e quebrem o monopólio e o autoritarismo dos padres.
A terceira proposta de saída é a mudança de comportamento com relação a essas pessoas. Bacarji lembra “que Cristo e o Evangelho não são tolerantes com a hipocrisia e com a falsidade” (p. 45). Por isso, ela afirma que “a misericórdia com estas pessoas deve ser pensada em outros moldes que não a habitual. Talvez seja mais misericordioso impedi-las de terem oportunidade de vivenciar suas perversões e patologias anti-sociais ou narcisistas, fazendo mal às pessoas da Igreja, à própria Igreja, a Deus e a si” (p. 67). Isso significa que a formação inicial dos candidatos aos ministérios ordenados precisa ser mais séria, capaz de identificar possíveis impostores e impedindo-os de chegar à ordenação. Mas para isso é preciso que à frente dos seminários estejam pessoas equilibradas e não seres transtornados e perversos.
Por fim, é preciso dizer que a maioria dos padres é formada por homens honestos, sérios, simples e inteiramente doados ao povo. E isso é uma grande consolação. Mas, na maioria das vezes, esses padres não são valorizados, não são apresentados pela mídia católica, sendo sobrepujados pelos impostores, geralmente midiáticos e “carismáticos” que se apresentam ao povo como os únicos modelos de presbíteros. Com isso o estrago está feito, pois o povo, iludido por “lobos vestidos com peles de ovelhas” (Mt 7,15), acaba deixando-se seduzir. “As batinas, hábitos, clergyman, para estas pessoas, representam poder e também especialidade em relação aos outros mortais, por isso muitos deles fazem questão dessas coisas já desde o seminário” (Bacarji, p. 62). Precisamos, pois, estar muito atentos, pois a impostura no ministério ordenado “costuma confundir muitos superiores e a todos nós” (Ibid., p. 70).

 José Lisboa Moreira de Oliveira